MEA PULCHRA
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Da "PIAZZA S. MARIA" di Renzo Carano
Venti case basse intorno ad un largo di terra battuta con al centro una traccia di antica strada romana, fatta di pietre ormai consunte e sconnesse. Le "vetture" preferivano non passarvi sopra, ma passavano a destra o a sinistra, dove si erano formati due sentieri incavati, resi morbidi dallo strame seccato al sole, che dava odor di stalla o di pagliaio.
Altre file di case basse si diramavano dal largo verso la fontana, a sinistra e verso il monte , a destra, sul quale svettava un vecchio campanile e si vedeva il tetto di una chiesa vecchia anch'essa; altre viuzze ed altre casupole a destra e a sinistra del largo; tutte le porte aperte per far uscire il fumo, ma le portelle chiuse per impedire alle galline di entrare, e permettere di entrare invece, al gatto attraverso la gattaiola, stretta, aperta nel basso della portella; davanti alle porte, a fianco degli scalini, fasci di "ceppe", mucchi di "schiariche" e qualche tronco di legna, tutti i camini fumanti a tutte le ore.
Amo Piazza S. Maria. Sento ancora adesso, a tanti anni di distanza, il canto del gallo solitario, negli assolati pomeriggi estivi. Non c'era nessuno in Piazza S. Maria. Tutti erano nei campi con le loro "vetture".
Razzolava qualche gallina e il gallo la chiamava.
La mano di mia madre mi tirava verso la scaletta della casa in cui era nata.
Mi piaceva quella scaletta e la vado a guardare, quando capito a Castiglione, ancora adesso, anche di notte.
Quegli scalini di pietra bionda, levigati dall'uso, quella ringhiera di ferro battuto che proteggeva e lasciava libero uno stretto cordone di pietra anch'essa gialla, sul quale scivolavo inebriato, sono ancora in me.
Lo farei ancora adesso. Ma non c'è mia madre e neanche mia nonna, alta vestita di nero, con un fazzoletto, nero anch'esso, ripiegato a triangolo sui capelli bianchi resi un pò gialli dal fumo.
La rivedo ancora mentre, sporgendosi sotto la nera cappa, avvicinava al cuore del fuoco le "zamarde" a mano a mano che si consumavano e stizzonava i grossi ciocchi laterali per ridare bollore al grosso caldaio di rame, nero di fumo, che pendeva dalla catena, nera anch'essa di fumo e accostava poi un pò di cenere e carboni accesi, fatti cadere dai tizzoni, alla pignatta di creta in cui si cuocevano, con lento bollore, i fagioli per la cena.
Quando arrivavo io, mi faceva un'offerta particolare: tagliava da una grossa pagnotta una piccola fetta di pane, l'immergeva nell'acqua in cui cuocevano i fagioli e me l'offriva fumante. Dopo la lunga passeggiata la mangiavo di gusto e ne risento ancora il sapore delicato e sensoso.
Alla mattina, intanto, quocevano le patate per i maiali.
Mia madre, salutata mia nonna, era scomparsa ed io sedevo, su una sediolina bassa, vicino al fuoco. Prima di arrivare alla fontanella, affacciandosi alla portella, ella aveva salutato Ersilia, zia Lucia Biasiegl' e a quest'ultima aveva chiesto dei figli, Funzitt' e Celist', spece di quest'ultimo, che aveva sposato una sua cugina, Ndrianella.
Quando, appena sposati, erano partiti per l'America, si erano fermati a casa nostra in paese. Mi ricordo che nello stipo di casa mia, a fianco del focolare, c'era un gran piatto di cosce arrostite di pollo, preparate per la circostanza.
Arrivati a Piazza S. Maria andava a salutare la comare Minicuccia la Ciociapenta; anche a questa chiedeva dei figli che, o erano in America, o erano in procinto di andarci. Se il promesso era figlio di uno che avesse la "carta cittadina", come si diceva, si sposava e partiva; giunto in America, portando con se le carte, "chiamava" la moglie; se la promessa era figlia di cittadino americano, partiva lei e poi chiamava il marito.
Intanto le patate erano cotte. Mia nonna se ne assicurava sollevando il coperchio della marmitta, dalla quale usciva una gran nuvola di vapore che si spandeva nella grande e nera cucina, schiacciandone una tra il pollice e l'indice della mano destra.
Fuoriusciva allora dalle patate il cuore giallo, screpolato, che mia nonna risucchiava soffiando. Facevo così anch'io.
Dopo la prova staccava dalla nera catena il grosso caldaio e lo deponeva vicino alla "troccola" dei maiali. L'operazione continuava: ognuno di noi schiacciava una patata, ne succhiava il cuore e gettava il resto nella "troccola" di legno.
Alla fine dell'operazione un pestello di legno schiacciava il tutto.
Ma dov'era mia madre? In giro a salutare le sue amiche e i suoi parenti.
Dove sono la Voccastretta, Pascalina, la Sulara, Niculetta Cialossa, Maria Di Pietro, la Catonza, la Purcarella, la Ciabotta, Maria P'lella, la Fraschetta, quelli dr' Quagliariegl', Bambina r Captan', Nicola Casciò, Santella?
E i loro figli? Tutto un mondo perduto: chi in America, chi al cimitero; c'è anche mia madre e non mi conduce più per mano verso gli assolati silenzi di Piazza S. Maria.
Non l'aspetto più dopo aver mangiato le patate, con le mani strette ai ferri della ringhiera della loggetta.
Allora in Paese tornavano gli uomini e le bestie dalla campagna e tutti col fazzoletto polveroso intorno al collo ed il cappellaccio nero in testa, segnato da un giro di sudore, che si allargava sulle falde, oltre lo stinto nastro, mi salutavano: conoscevano mio padre e mia madre.
Ma poi passava, alto sul cavallo grigio, con la bisacca a tracolla il Massaro. Si fermava sotto la ringhiera della loggetta e dalla bisacca estraeva due cavallini di pasta di cacio-cavallo e me li offriva tra i bastoni dell' inferriata; correvo da mia nonna e glieli mostravo.
E mia madre? Sradicata dal suo ceppo, ricercava se stessa.
Tornava poi, all'imbrunire, e riprendevamo la via del paese.
Piazza S. Maria, ti amo come allora.
Sento, come allora, il canto di un gallo solitario negli assolati pomeriggi estivi.
Più grandicello, ci andavo solo a Castiglione. Passando davanti al cimitero mi segnavo, come mi aveva insegnato mia madre, ma non guardavo attraverso il cancello ed affrettavo il passo, tenendo d'occhio la cima del pioppo ai confini della Lenza. In questo terreno si coltivavano di solito le patate e granturco con erba medica; se c'era granturco, al ritorno mi fermavo e ne coglievo due o tre pannocchie, chiuse, con le lunghe barbe di peli, biondi o castani e me le portavo a casa, per cuocerle sulla brace; ma all'andata non mi fermavo: la Lenza era troppo vicina al Cimitero. Mi fermavo, invece, al ponte Sette Cupe, a metà strada. Aveva sempre attratto la mia attenzione e non mi rendo ancora conto perchè: un ponticello largo, basso, che scavalca un fossato sempre asciutto d'estate, fatto di ciottoli rotondi, levigati e bianchi. Forse mi attraeva il suo nome che suonava misterioso.
La seconda sosta era sotto le "Macère" un boschetto di querce che scendeva per un canalone dalla cima del monte fino alla strada.
Era nostro e sul limite della strada, alto su una greppa, spargeva sulla strada la sua ombra un ciliegio ed io dovevo osservare se avesse i frutti già maturi.
Conoscevo le "Macère"; zio Ulisse mi ci conduceva in due occasioni: quando sciamavano le api, ed allora io dovevo battere un tamburo di latta, perchè si fermassero, ed allora formavano un grappolo con la regina, su un ramo di quercia, che si incurvava.
Zio Ulisse prendeva dalla cassetta in cima alle "Macère" un'arnia vuota e tagliava con la cesoia, su di essa, il ramo del "cupo", senza maschera, tanto le api lo conoscevano.
Ma non conoscevano me ed io mi tenevo lontano e cercavo le more appena rosse tra le siepi; ci andavo di nuovo quando si smielava; ma allora, indossava la maschera e dato inizio alle operazioni di prelievo dei telaini e delle arnie, lo zio mi mandava alla casa della loggetta: dovevo disorpecolare i telaini con un largo e lungo coltello, a mano a mano che arrivavano, disporli nella centrifuga e girare la manovella. Colava il dolce miele nella latta. Allungavo un dito, ogni tanto, ma l'abbondanza mi toglieva il gusto del dolce.